Muoversi 4 2022
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QUANDO PER LA SICUREZZA ENERGETICA
L’ITALIA PUNTÒ SULL’AUTARCHIA

QUANDO PER LA SICUREZZA ENERGETICA
L’ITALIA PUNTÒ SULL’AUTARCHIA

di Giorgio Carlevaro

In questa nuova puntata Giorgio Carlevaro ripercorre pagine dimenticate della storia del petrolio italiano che presentano diversi elementi di confronto con quanto sta accadendo oggi nel mondo dell’energia e che offrono qualche utile insegnamento. Anni in cui, in nome dell’autarchia, ci fu in tutto il mondo il fiorire di una serie di iniziative scientifiche e industriali per lo sviluppo e l’impiego di carburanti e combustibili alternativi. Un fenomeno che anticipa per molti aspetti lo sfruttamento delle fonti alternative e rinnovabili.

Giorgio Carlevaro

Direttore emerito

Staffetta Quotidiana

Le vicende che stiamo attraversando nel campo dell’energia dovute alla pandemia e dal febbraio scorso alla guerra in Ucraina incoraggiano spesso paragoni con le misure decise e applicate alla fine del 1973 in occasione di quella che è passata alla storia come “la crisi del Kippur”. Crisi innescata il 6 ottobre dalla quarta guerra arabo-israeliana, quando l’Opec e l’Oapec, le organizzazioni dei paesi produttori ed esportatori di petrolio, decisero di aumentare del 70% il prezzo dell’Arabian Light, di ridurre del 25% la produzione petrolifera araba e di praticare l’embargo contro Usa e Olanda. Suscitando un grande panico e l’impressione di assistere alla fine di un’era. Quella di un mondo industrializzato basato sul petrolio facile grazie al quale si poteva puntare a uno sviluppo economico senza limiti. In Italia la dipendenza dal petrolio era arrivata al 74%.

Il primo intervento deciso dal governo Rumor fu un pacchetto di 16 misure varato dal Consiglio dei Ministri il 22 novembre 1973, il cosiddetto “codice dell’austerità”, che aveva tra i punti di forza il divieto di circolazione di tutti veicoli privati la domenica e le festività infrasettimanali, la chiusura serale anticipata dei locali pubblici, dei negozi, delle trasmissioni televisive, la riduzione dell’illuminazione pubblica, la raccomandazione agli utenti del riscaldamento di non superare la temperatura di 20°C, l’imposizione di rigorosi limiti di velocità. Mancava solo il razionamento dei carburanti. Misure che inducevano a pensare che un modo di vita fosse cambiato per sempre. Tutto ciò di cui si disponeva era fatto su misura di un mondo dove l’energia era sempre stata sicura, abbondante e a buon mercato. È l’inverno più duro dopo la fine della guerra.

Un pacchetto che restò in vigore fino a tutto il primo semestre 1974, cioè per poco più di sei mesi. E che lasciò in eredità ai successivi governi il piano petrolifero approvato dal Cipe il 29 marzo 1974 che conteneva tra le novità più importanti l’accentuazione e il rafforzamento del peso e del ruolo dell’Eni e la riorganizzazione del settore. Senza dare invece risposta ai problemi sollevati dalla crisi del Kippur, né a quello della dipendenza petrolifera e della sicurezza degli approvvigionamenti, né a quello dell’onere valutario connesso alla quadruplicazione dei prezzi del petrolio. Obiettivi passati in eredità ai successivi piani energetici (v. articolo sul numero di Muoversi n. 4/2021). Di fatto passeranno non meno di quattro anni dalla crisi del Kippur per cominciare a ridimensionare il peso del petrolio, a ridurre la dipendenza dall’estero, a razionalizzare le strutture preposte alla lavorazione e alla distribuzione dei prodotti petroliferi.

Un paragone che, tutto considerato, offre scarsi punti di confronto con quello che sta accadendo oggi nel mondo dell’energia. Mentre ne offre molti di più riandare, facendo un salto indietro nel tempo, alle iniziative adottate negli anni ’30 dal governo Mussolini per rivedere la politica italiana dell’energia, iniziative passate alla storia come l’era dell’Autarchia. Vicende dimenticate, ma da cui si può trarre qualche utile insegnamento.

Sono gli anni in cui l’invasione, nell’ottobre del 1935, dell’Abissinia con il Paese tenuto per sette mesi sotto scacco dalla minaccia delle sanzioni e dell’embargo sul petrolio, accentua l’attenzione su un argomento allora del tutto nuovo, quello appunto di come raggiungere una maggiore autonomia economica e politica in tema di energia. Una dottrina che nell’immaginario collettivo viene associata normalmente a Mussolini. Ma che era applicata in quegli anni, sotto la paura di una nuova guerra, dalla maggior parte dei paesi europei e dagli Stati Uniti, nei suoi tre aspetti dell’autonomia, dell’autosufficienza e della sicurezza. Ne è prova il fatto che in quegli anni, in nome dell’autarchia, ci fu in tutto il mondo il fiorire di una serie di iniziative scientifiche e industriali per lo sviluppo e l’impiego di carburanti e combustibili alternativi, i cosiddetti succedanei. Sfruttando le risorse dell’industria chimica e l’ingegnosità dei ricercatori e degli utilizzatori. Un fenomeno che anticipa per molti aspetti lo sfruttamento delle fonti alternative e rinnovabili.

Un’idea che Mussolini aveva in testa già da tempo come si evince da una dichiarazione del giugno 1934: “Tutte le Nazioni moderne, grazie allo sviluppo prodigioso delle scienze, possono tendere ad una certa autarchia. Anche se avremo bisogno di importare combustibile liquido. Adesso stiamo frugando il nostro territorio per vedere se questo petrolio c’è. Se c’è lo tireremo fuori, se non c’è ci metteremo il cuore in pace”

Una politica su cui si espresse più compiutamente in una nota dal titolo “il pensiero del Duce sui combustibili” diffusa dal Campidoglio il 23 marzo 1936. In cui spiega che “per vedere se e in quali limiti l’Italia può realizzare la sua autonomia economica nel settore della difesa nazionale, bisogna procedere all’inventario delle nostre risorse e stabilire quel che ci può dare la tecnica e la scienza”. Cominciando da quello che definiva “il lato più negativo: quello dei combustibili liquidi. Ovvero il fatto che “le ricerche del petrolio nel territorio nazionale sono in corso, ma finora senza risultati apprezzabili”. Per cui, “per sopperire al fabbisogno di combustibili liquidi contiamo – specie in tempo di guerra – sulla idrogenazione delle ligniti, sull’alcool proveniente dai prodotti agricoli e sulla distillazione delle rocce asfaltifere”.

Concetti che si erano già tradotti due mesi prima in una direttiva al Comitato Corporativo dei Combustibili Liquidi all’atto della sua istituzione. E che nell’arco di 18 mesi portarono a sviluppare la ricerca in quattro direzioni: carburanti a miscela alcolica (con alcool ottenuto da cereali, melasso, bietole, sorgo, elianto e vinacce), carburanti sintetici da risorse del sottosuolo (ligniti e rocce asfaltiche), carburanti da gas naturali, autotrazione a gassogeno. Impiegando a seconda dei casi processi di distillazione, idrogenazione, gassificazione, sintesi, instillazione a bassa temperatura, estrazione con solventi e di rigenerazione nel caso dei lubrificanti usati. Applicando, se del caso, tecnologie già sperimentate con successo in altri paesi. Direttive che verranno rafforzate nel gennaio 1939 con la creazione di un vero e proprio Comitato interministeriale per l’autarchia.

Quanto ai combustili solidi, Mussolini rilevava che “non potremo fare a meno – allo stato attuale della tecnica – di alcune qualità di carbone pregiato destinato a speciali consumi: per tutto il resto si impiegheranno i carboni nazionali, il liburnico, il sardo, l’aostano”. Chiudendo il messaggio, affermando che “io calcolo che potremo, con le nostre risorse, più la elettrificazione delle ferrovie, più il controllo della combustione, sostituire dal 40 al 50% del carbone straniero”. Senza citare stranamente l’energia idroelettrica che allora veniva chiamata “il carbone bianco”.

Una scommessa in cui si colloca la decisione di costruire dal nulla in Sardegna nel bacino carbonifero del Sulcis Iglesiente, con il Decreto n. 2189 del 6 novembre 1937, la città di Carbonia inaugurata il 18 dicembre 1938 alla presenza di 35.000 persone: un carbone autarchico, ma soprattutto un “carbone autentico”, come Mussoli preferì definirlo.

Una serie di obiettivi che trovano riscontro nel bilancio preventivo 1936-37 del ministero delle Corporazioni. Con particolare riguardo, in merito ai combustibili liquidi, al cosiddetto Codice del Petrolio, emanato con il Regio decreto-legge 2 novembre 1933 n. 1741 (poi convertito con la Legge 8 febbraio 1934 n. 367). Un provvedimento che regolava e legava insieme per la prima volta l’importazione, la lavorazione, il deposito e la distribuzione degli oli minerali e dei lubrificanti. Due gli aspetti più innovativi: l’introduzione delle “licenze di importazione e l’imposizione dei “cicli completi” nelle lavorazioni delle raffinerie fino ad allora limitate al cracking dei residui. Obiettivo: assicurare nel più breve tempo possibile la disponibilità di impianti di raffinazione sufficienti a provvedere al fabbisogno completo in fatto di prodotti petroliferi distillati; contenere l’onere per l’erario legato all’import del petrolio; garantire uno stock di greggio e di prodotti finiti da servire come riserva ai fini della difesa nazionale; assicurare all’Amministrazione mezzi più validi e sicuri per seguire lo svolgimento di tutte le attività commerciali nel campo del petrolio. Inclusa nel provvedimento anche la disciplina dei depositi e dei distributori di carburanti.

Il provvedimento, che ricalcava leggi adottate in altri paesi ed in particolare in Francia, partiva dal presupposto di un peso crescente del petrolio nella copertura del fabbisogno energetico nazionale legato fra l’altro allo sviluppo e alla promozione dell’automobilismo. La produzione di petrolio greggio, che faceva capo all’Agip, alla Spi di Fornovo Taro, alla Petroli d’Italia di Milano e alle Regie Terme di Salsomaggiore, non raggiungeva allora le 27.000 tonnellate. Quanto alle importazioni, su un totale di 1.498.470 tonnellate, i residui pesavano per il 56%, la benzina per il 22%, il petrolio illuminante per circa il 10%, i lubrificanti per il 4% e il greggio solo per l’8%. Quanto ai prodotti ottenuti dalla lavorazione dei residui e dei greggi nei 7 impianti allora in funzione (Fiume, Trieste, Fornovo Taro, Fiorenzuola d’Arda, Salsomaggiore, La Spezia, Napoli), erano ammontati nel 1932 a circa 415.000 tonnellate, di cui il 38% benzina e il 30% olio combustibile. Il tutto in un quadro energetico dominato quasi al 100% per quel che riguarda la produzione di energia elettrica dall’idroelettricità e dove fra i combustibili una parte predominante era coperta dal carbone.

Le prime licenze di importazione, circa 20, vennero assegnate all’inizio del 1935. Da esse si può ricavare uno spaccato degli operatori presenti allora sul mercato e della loro relativa importanza. In testa l’Agip, l’azienda di Stato fondata nel 1926, con 563.000 tonnellate tra licenze di importazione e di produzione su un totale di 2.027.350 tonnellate (28%), seguita dalla Siap facente capo alla Standard Oil of New Jersey (Esso) con 531.000 tonnellate (26%) e dalla Nafta (Shell) con 428.000 tonnellate (21%). Nell’elenco anche il gruppo Vacuum (Mobil) con 58.000 tonnellate, la Petrolea (emanazione del Sojuzneftexport russo) con 92.000, l’Apir con 55.000 e l’Unione Importatori di Lubrificanti con 177.000. Due licenze collettive vennero assegnate al Consorzio importatori e commercianti (Cipsa) e al Gruppo italiano lubrificanti (Gilsa). Quanto agli impianti di distribuzione dei carburanti, i primi risalivano al 1924 e al momento il Paese disponeva di una rete di 22.000 apparecchi.

Nell’attuazione del nuovo Codice il problema più difficile era conciliare lo sviluppo di un’industria nazionale della raffinazione, che avrebbe avuto bisogno di un’adeguata protezione doganale, con le esigenze dell’Erario che non poteva rinunciare ai forti cespiti rappresentati dai dazi. Dilemma non facile da risolvere, come pure quello legato alla ripartizione dei permessi di importazione, se dare cioè la preferenza ai prodotti delle raffinerie o a quelli importati dall’estero. Nodi affrontati con il nuovo regime fiscale degli oli minerali e derivati approvato con il decreto-legge 5 febbraio 1934 n. 88. Un provvedimento di grande importanza per l’industria nazionale del petrolio in quanto fissava i limiti di protezione per gli impianti di lavorazione in Italia, notoriamente nell’impossibilità di sopravvivere senza un aiuto adeguato, come del resto avveniva anche in altri paesi privi della materia prima.

I frutti di questi provvedimenti non tarderanno a maturare. Già nel 1934, il 29 agosto, a Trieste viene costituita da un gruppo di operatori triestini (in prevalenza ebrei) la società Aquila per la realizzazione di una raffineria inaugurata nel gennaio del 1937. Al capitale partecipa con il 15% anche la Fiat che nel 1939, dopo le leggi razziali, salirà al 47,5%. Quasi contemporaneamente l’Agip rileva la Dicsa di Marghera con l’intento di trasformarne gli impianti in una raffineria a ciclo completo. Nel dicembre del 1935 è la volta dell’Azienda Italiana Petroli d’Albania (Aipa) ad ottenere l’autorizzazione per la realizzazione di una raffineria. Nel frattempo, nel 1935, alla raffineria di Fiume, un impianto che risaliva al 1882, acquistata nel 1923 dal Governo italiano dopo il ritorno della città all’Italia e dal 1926 controllata dall’Agip attraverso la Romsa, arrivano i primi greggi dell’Albania per alcune lavorazioni di prova. Nel 1936, il 17 febbraio, viene costituita l’Anic (50% Montecatini, 25% ciascuna Agip e Aipa) che realizzerà le raffinerie di Bari e di Livorno in funzione dal 1938. Nello stesso anno la Siap assume il controllo della Raffineria Triestina Olii Minerali. Risale invece all’11 novembre del 1937 l’inaugurazione della raffineria di Napoli del gruppo Vacuum. Importanti anche le iniziative promosse a Genova nel 1931 da Edoardo Garrone e ad Ancona nel 1933 da Ferdinando Peretti.

Tornando ai succedanei, tipica tecnologia autarchica e di guerra, vale la pena di ricordare l’auto alimentata con un gasogeno, il gas ottenuto dalla distillazione della carbonella che nel 1934 aveva suscitato grande entusiasmo in occasione di un “raid” compiuto da una auto Balilla attrezzata all’uopo. Quanto all’alcool carburante, nel 1935 l’Agip aveva messo in commercio una miscela denominata Robur (20% alcool metilico, 32% alcool etilico e 48% benzina) che aveva dato ottime prove su due Alfa-Romeo giunte prima e seconda al concorso internazionale di Parigi per macchine azionate con carburanti succedanei. E “miscele fai da te” con contenuto di alcool fino all’85% e oltre vennero impiegate nella “Mille miglia a succedanei” svoltasi nel maggio del 1936.

Oggetto di attenzione anche i gpl. Le prime notizie risalgono al 1937 e riguardano, da una parte, la Liquigas che l’8 aprile aveva presentato “il programma in corso di attuazione per la produzione italiana dei gas liquefatti combustibili propano e butano ricavati dal gas di piroscissione dei petroli” e, dall’altra, alcuni esperimenti fatti dalla Fiat sull’impiego del butano “messo in bombole sotto forma di liquido” come carburante.

Tra le applicazioni che traggono impulso dall’autarchia, anche il recupero e la rigenerazione degli oli lubrificanti usati, studiati e industrialmente attuati dagli anni ’30 in Italia con metodi semplici, efficaci ed economici e che verranno resi obbligatori alla vigilia della guerra con la Legge 29 aprile 1940 n. 671. L’obbligo della raccolta incombeva su amministrazioni civili e militari dello Stato, enti pubblici, aziende private, autorimesse, officine ed esercenti di posti di rifornimento oli, nonché sui Consorzi Agrari. Alla raccolta dovevano provvedere le imprese rigeneratrici.

Tra gli obiettivi perseguiti con la politica dell’autarchia, un capitolo particolare riguarda le ricerche petrolifere in Italia e all’estero. Era dalla metà del secolo XIX che pionieri isolati e società appositamente costituite, a capitale estero o misto, andavano svolgendo un lavoro lungo, paziente e tenace di ricerca. I giacimenti scoperti e posti in coltivazione erano peraltro di entità modesta. Di particolare rilievo quello localizzato nel 1911 a Vallezza in provincia di Parma, dalla Società Petrolifera Italiana (Spi), costituita nel 1905, e quelli di Velleia e Montichino sviluppati alla società Petroli d’Italia, nata nel 1906 dalla fusione di due società francesi. Scoperte all’origine, tra l’altro, delle raffinerie di Fornovo Taro e di Fiorenzuola d’Arda.

Un lavoro pionieristico che aveva consentito, tra l’altro, di stabilire che era giunto il momento di spostare il baricentro delle ricerche dall’area occupata dalla catena appenninica e dalle sue propaggini verso le “zone marginali” o esterne, e in particolare verso la Pianura Padana, dove le condizioni geologiche erano più favorevoli. Una svolta radicale nei criteri e negli orientamenti della ricerca che venne favorita anche dalla Legge mineraria del 1927 che portò già nella seconda metà degli anni ’20 alle scoperte di Salsomaggiore da parte della Spi (dal 1927 partecipata dalla Siap) e di Podenzano da parte della Ballerini e C., entrambe in provincia di Piacenza, e a quella di Fontevivo in provincia di Parma da parte dell’Agip.

Quest’ultima scoperta, che risale al 1929, considerata il primo segnale della presenza di grandi quantità di gas, e forse di petrolio, nella pianura padana, era frutto del Decreto-legge 13 febbraio 1927 n. 300 con il quale era stato conferito all’Agip l’incarico di effettuare ricerche petrolifere in Italia e all’estero per conto dello Stato con un primo stanziamento di 21 milioni di lire per il triennio 1927-1930. Incarico via via confermato fino al 30 giugno 1943 con uno stanziamento complessivo di 192 milioni nell’arco di 16 anni.

Il tutto in base ad un programma predisposto dalla sezione ricerche della società che prevedeva 90 sondaggi, di cui 62 nell’Italia Settentrionale e 28 nell’Italia Meridionale e Sicilia, secondo una media di 18 all’anno, e l’acquisto di 6 apparecchi di perforazione del tipo Alianta e 6 del tipo Rotary. Di questi ultimi 2 potevano raggiungere profondità di 2.000 metri e gli altri profondità variabili da 1.500 a 2.000 metri.

Da notare come l’incarico conferito all’Agip fa riferimento sempre ed esclusivamente a ricerche petrolifere, assente qualsiasi riferimento al gas naturale o più in generale agli idrocarburi. Nonostante già da tempo fossero stati raccolti importanti elementi di giudizio sull’esistenza di giacimenti gassosi.

Le iniziative mirate a trovare petrolio nel territorio nazionale vanno di pari passo con una serie di ricerche sviluppate all’estero a partire dall’Albania ed estese poi all’Iraq, alla Romania, alla Libia e all’Africa Orientale, per finire con un inutile tentativo, fatto insieme alla Germania e al Giappone, sul finire negli anni ’30, di ottenere una concessione in Arabia Saudita sulla scia della scoperta fatta dalla Socal nel marzo del 1938.

La capacità degli operatori italiani si cimentò con alterni successi in quelle che erano allora le nuove frontiere del petrolio, anche se troppo spesso dovette fare i conti con i condizionamenti della politica. Vicenda oltremodo significativa quella dell’Albania, iniziata nel 1925 con l’Azienda Italiana Petroli d’Albania (Aipa), costituita con un finanziamento di 30 milioni a carico di una speciale gestione autonoma istituita in seno all’amministrazione delle Ferrovie dello Stato che in quel paese deteneva delle concessioni forestali per ricavare traversine per i binari. Già nel 1933 l’Aipa era in grado di far valere i buoni risultati raggiunti nella concessione ubicata nella zona del Devoli, tanto è vero che con apposita Legge (la n. 524 dell’8 maggio) le vennero conferiti oltre 200 milioni di lire per allargare l’esplorazione anche nella zona di Patos. Il primo carico di greggio arrivò in Italia nel dicembre 1935 destinato alla raffineria di Fiume. Dal 1938 verrà lavorato presso la raffineria di Bari Nel 1938, prima di essere trasferita all’Agip a seguito l’anno dopo dell’occupazione del paese da parte dell’Italia, l’Aipa era arrivata ad una produzione annua di oltre 100.000 tonnellate di petrolio.  Una vicenda finita con l’annessione da parte delle truppe tedesche delle sue attrezzature.

Capitolo  “amaro” anche quello dell’
Iraq, avviato nel 1927 con l’acquisizione da parte dell’Agip, presieduta allora da Alfredo Giarratana, di una partecipazione del 21% nella neo-costituita British Oil Development (Bod), chiave d’ingresso per accedere alle risorse petrolifere di quel paese in diretta concorrenza con la Turkish Petroleum, poi perfezionato con l’acquisizione nell’autunno del 1932 della maggioranza nella Mosul Oilfields e della sua concessione di 46.000 miglia quadrate in una zona ad ovest del Tigri. Un’avventura interrotta anzitempo nell’estate del 1936, proprio quando si stava passando alla fase estrattiva: vittima della politica coloniale di Mussolini e delle costose spedizioni in Etiopia e in Spagna, che, per fare cassa (l’equivalente di 48 milioni di lire), portò alla vendita della partecipazione Agip alla Iraq Petroleum Company.

Vicenda per molti aspetti diversa quella della partecipazione alle ricerche petrolifere in Romania, un paese che negli anni ‘30 ebbe gran peso negli approvvigionamenti europei e dell’Italia in particolare. Basti ricordare che nel 1939 la produzione petrolifera di questo paese aveva toccato i 6,2 milioni di tonnellate, al quinto posto nella classifica mondiale dei maggiori produttori dopo Usa, Russia, Venezuela e Iran, e le esportazioni di greggio e di prodotti si aggiravano sui 5 milioni di tonnellate, di cui il 75% attraverso il porto di Costanza sul Mar Nero. E tra gli importatori l’Italia, con 635.000 tonnellate, figurava al secondo posto dopo la Germania, per impulso anche della Azienda Petroli Italo-Romena (Apir) costituita nel 1934 dal Creditul Minier di Bucarest, un’impresa  locale di produzione e raffinazione, partecipata a larga maggioranza, a partire dal 1937, dalla Fiat. I primi passi per una presenza dell’Italia in quel paese erano stati fatti subito dopo la guerra 1914-1918 e si erano conclusi nel maggio 1926 con l’assunzione da parte dell’Agip di una partecipazione nella Prahova, società di ricerca, e nella Petrolul-Bucaresti, titolare di una raffineria nei pressi di Bucarest, assumendo il controllo di entrambe.

Un capitolo a sé è costituito dalle ricerche sviluppate dall’Agip in varie zone dell’Africa Orientale (isole Daalac nel Mar Rosso, Somalia e Dancalia) e pure in Libia. Ricerche a cui aveva dato rilievo la relazione di bilancio dell’Agip pubblicata nell’aprile del 1938, riconoscendo la regione “meritevole di uno studio preliminare approfondito nei riguardi di eventuali possibilità petrolifere nel sottosuolo” e ne tracciava il programma di esecuzione che prevedeva anche l’esecuzione di un certo numero di trivellazioni esplorative a piccole profondità e di una a grande profondità. Già nei primi mesi del 1938 vennero inviati in Tripolitania mezzi meccanici occorrenti per iniziare subito i lavori di ricerca. Si trattava di tre apparecchi di tipo leggero integrati successivamente da un impianto Rotary capace di raggiungere profondità fino a 1.500 metri. Con cui già nel 1938 erano stati ultimati due sondaggi a profondità di poco inferiore ai 500 metri ed altri tre erano in corso di perforazione. Con lo scoppio della guerra nel 1940 la Tripolitania diventerà uno dei più insanguinati teatri di guerra.

Una delle questioni più dibattute nell’immediato dopoguerra riguarda la scoperta del gas naturale della Valle Padana: fino a che punto si sapeva, prima di allora, di questa ricchezza nazionale sepolta nel suo sottosuolo? A che punto si era arrivati ad accertarne la consistenza, se è vero che ci fu una congiura all’indomani della guerra per occultare i dati e gli elementi di giudizio raccolti e disponibili e per depistare gli interessi in campo? Quale peso i risultati degli studi e delle indagini già eseguite ebbero sulle intuizioni di Mattei e sulle sue scelte? Fra i materiali del periodo in esame quelli in grado di sciogliere o perlomeno di dare una risposta significativa a questi interrogativi sono numerosi e interessanti. Una ricchezza di studi e di analisi firmati dai diretti protagonisti che danno conto, con dovizia di particolari, dei progressi via via raggiunti, spostando l’attenzione dal petrolio al gas. Non è un caso che la prima grande scoperta di gas avvenga in piena guerra, tra il maggio e il luglio del 1944, a Caviaga nel comune di Cavenago d’Adda, con il pozzo Lodi n. 1 alla profondità di 1.342 metri. Quattro anni prima di Ripalta e cinque anni prima di Cortemaggiore.

Nel frattempo, la percezione dell’importanza del metano nazionale come snodo importante per perseguire gli obiettivi di autarchia e di indipendenza dal petrolio estero aveva fatto un importante salto di qualità. A sancire ufficialmente questo mutamento di atteggiamento erano stati per primi una circolare del ministero delle Comunicazioni del 4 marzo 1938 sull’impiego dei carburanti nazionali negli autoservizi pubblici, in cui si metteva al primo posto l’obiettivo di favorire ed estendere per quanto possibile l’utilizzazione del metano come carburante in tutte le zone vicine ai centri di produzione, e il piano autarchico per il 1940 del ministero delle Corporazioni relativo all’approvvigionamento di carburanti che chiamava in causa in particolare i gas naturali della fascia pedemontana appenninica fra Piacenza e Bologna, della valle padana e della pianura veneta e specialmente quelli delle province di Rovigo e Ferrara. Il tutto sancito dalla Commissione Suprema per l’Autarchia che in una riunione tenuta sul finire del 1938 aveva messo in rilievo l’apporto del metano all’emancipazione dal carburante straniero e le grandi possibilità che “questo italianissimo gas” poteva riservare per il prossimo avvenire. Con la promessa dell’esonero fiscale per cinque anni alle iniziative destinate all’utilizzo del metano. Superando il meccanismo delle agevolazioni fino ad allora concesse dallo Stato. In vista anche di una sorta di “piano regolatore”, per l’approvazione e la costruzione dei metanodotti. Premessa di una rete di 2.000 chilometri che avrebbe dovuto convogliare 150 milioni di mc all’anno di gas naturale e artificiale, spingendosi dalla Toscana verso Milano e Bologna.

Un’esigenza a cui si dà seguito a guerra già in atto, con la costituzione nel novembre 1940 dell’Ente Nazionale, cui farà seguito nel 1941 la costituzione della Snam (Società nazionale metanodotti) e dell’Amp (Azienda metanodotti padani). La prima, partecipata anche dall’Agip e dalle Terme di Salsomaggiore, promuoverà la realizzazione del metanodotto Milano-Bologna lungo un percorso di 271 km con l’obiettivo di collegare i vari giacimenti metaniferi del versante Adriatico con i centri di consumo del metano auto dislocati lungo la via Emilia. La seconda, partecipata anche dalla Dalmine e dal Consorzio produttori del Polesine costruirà i metanodotti Padova- Rovigo-Ferrara e Rovigo-Verona.

Lo scoppio nel settembre 1939, con l’invasione della Polonia da parte della Germania, di quella che presto diventerà la Seconda guerra mondiale, non coglie di sorpresa gli operatori. Il “rischio di guerra” era all’epoca una percezione diffusa, tutt’uno con la consapevolezza che questa volta la disponibilità di petrolio, anche alla luce della guerra di Etiopia considerata una sorta di test, avrebbe fatto la differenza. Anche se l’Italia entrerà in guerra solo il 10 giugno 1940, le ripercussioni sono immediate. I provvedimenti varati dal Governo tra il 29 agosto e il 5 settembre 1939 vanno dall’aumento degli oneri fiscali sui carburanti, a limitazioni alla circolazione degli autoveicoli, al blocco sulla consistenza di carburanti e lubrificanti nei depositi e nei distributori automatici in vista di una loro eventuale utilizzazione da parte delle autorità militari, al divieto di porre in esercizio nuovi apparecchi od impianti di combustione alimentati esclusivamente da combustibili liquidi, al divieto all’esportazione di oli minerali e alcoli. Provvedimenti rivolti a salvaguardare le scorte di combustibili e di carburanti e a disciplinare e maggiorare i rifornimenti la cui attuazione è affidata all’Ufficio Speciale Combustibili liquidi costituito nell’ottobre del 1935 durante il periodo delle sanzioni. A cui, nel luglio 1940, si aggiungerà l’obbligo della denuncia da parte delle ditte esercenti stabilimenti ed impianti industriali, dei combustibili solidi e liquidi da essi detenuti e l’istituzione di una Commissione consultiva per i combustibili liquidi incaricata di dare pareri alla Commissione suprema di difesa. All’inizio nessuno sembra rendersi conto del disastro a cui il Paese sta andando incontro. Prevalgono in Mussolini la fiducia nella brevità della guerra e la certezza della vittoria. E pensa già al dopo. Significativa la mozione approvata il 14 novembre 1940 al termine di una riunione della Corporazione dei combustibili liquidi e dei carburanti. Quattro i punti all’ordine del giorno: fabbisogni futuri di prodotti petroliferi che “nel decennio successivo alla guerra” potrebbero raddoppiare passando da 4 a 8 milioni di tonnellate; risultati della politica autarchica e necessità di non abbandonarla anche in un contesto di ritorno alla libertà dei rifornimenti; sviluppo dell’industria petrolifera (raffinerie e depositi) per la quale la mozione afferma la necessità di appositi “piani regolatori”; approvvigionamenti petroliferi necessari per saldare il fabbisogno di energia.

Un dopoguerra a cui guardano anche le direttive impartite nell’agosto 1941 al ministro delle Corporazioni e al presidente dell’Ente nazionale metano per dar vita ad un’industria metanifera che sia in grado non solo di fronteggiare le difficoltà contingenti, ma anche di assicurare al Paese un forte e durevole contributo all’autarchia nel campo dei carburanti.

Con un ultimo colpo di coda, l’istituzione, sul finire del 1943, di un Centro nazionale ricerca e produzione petrolio e gas, organo del ministero dell’Economia Corporativa della Repubblica Sociale Italiana, la cosiddetta Repubblica di Salò, con il compito di potenziare al massimo la ricerca e la produzione nazionale e tutte le attività e le iniziative nel settore degli idrocarburi liquidi e gassosi, sotto l’aspetto scientifico, tecnico finanziario, legislativo, fiscale e burocratico.

Il periodo che va dall’8 settembre 1943, giorno dell’annuncio dell’armistizio del governo Badoglio con le truppe alleate, e la fine della guerra nell’aprile del 1945 è uno dei più tragici della storia d’Italia. Con la fine dei sogni di gloria di Mussolini e dell’era dell’autarchia.